Ci viene raccontata una favola rassicurante: per scovare i “mostri” che adescano i minori online, è necessario dare un’occhiata preventiva a tutte le nostre comunicazioni. Tutte. Le foto che mandiamo ai nostri partner, i messaggi vocali ai nostri amici, i link che condividiamo nei gruppi di famiglia. Tutto scansionato, analizzato, vagliato da un algoritmo prima ancora di essere protetto dalla crittografia end-to-end, quella stessa tecnologia che oggi ci garantisce un piccolo, ultimo spazio di intimità digitale.
Non lasciamoci ingannare. Questa non è un’indagine mirata contro criminali. Questa è la presunzione di colpevolezza universale. È trattare 500 milioni di cittadini europei come potenziali sospetti, trasformando i nostri smartphone, i nostri computer, in spie al servizio di uno Stato che non si fida più di noi.
L’Algoritmo Giudice: un’intelligenza artificiale fallace e pericolosa
Il cuore pulsante di questo sistema orwelliano è l’intelligenza artificiale. E qui, la mia missione di togliere la paura verso l’AI si scontra con la dura realtà di un suo uso distorto e pericoloso. Ci promettono un guardiano infallibile, ma la verità è che affideremmo la nostra reputazione e la nostra libertà a un sistema con tassi di errore terrificanti.
Parliamo di dati concreti. Studi e persino report di agenzie come la Polizia Federale tedesca hanno evidenziato come i sistemi di scansione automatica possano avere tassi di “falsi positivi” altissimi, in alcuni casi superando il 48%. Nel rilevamento di materiale “nuovo”, mai visto prima, l’accuratezza crolla vertiginosamente. Cosa significa? Significa che la foto del vostro bambino al mare, una battuta dal sapore ironico, un’immagine medica o persino un’opera d’arte potrebbero essere sufficienti per far scattare un allarme.
Diventeremmo tutti imputati in un processo sommario condotto da una macchina, un’entità che non conosce contesto, sfumature culturali o sarcasmo. Un’AI che, a causa di “allucinazioni” o bias di programmazione, potrebbe trasformare un cittadino innocente in un mostro da segnalare alle autorità. È questo il futuro che vogliamo? Un mondo in cui la paura di essere fraintesi da un algoritmo ci spinge all’autocensura?
Il Cavallo di Troia contro la Crittografia: la fine del segreto digitale
Per decenni, i più grandi esperti di cybersecurity ci hanno insegnato un mantra: non esiste una “backdoor” sicura. Qualsiasi porta segreta creata per le forze dell’ordine diventerà inevitabilmente una vulnerabilità sfruttabile da hacker, regimi autoritari e malintenzionati di ogni tipo.
Il Chat Control, per funzionare, deve aggirare o indebolire la crittografia end-to-end, il sigillo digitale che protegge le nostre conversazioni da occhi indiscreti. Obbligare piattaforme come WhatsApp, Signal o Telegram a implementare questa scansione “lato client” (cioè sul nostro dispositivo) significa creare un punto debole universale. Un unico anello debole per controllarli tutti.
È l’ipocrisia finale: in nome della sicurezza, si crea la più grande insicurezza immaginabile. I nostri dati personali, finanziari e sanitari, le nostre conversazioni più intime, tutto diventerebbe vulnerabile. E mentre noi cittadini saremmo esposti, indovinate chi sarebbe esentato da questa sorveglianza? Gli account governativi e militari. La legge, a quanto pare, non è uguale per tutti, specialmente per chi la scrive.
La Libertà non è un optional
Come umanista digitale, credo che la tecnologia debba amplificare le nostre libertà, non restringerle. Deve essere uno strumento per democratizzare il sapere, non per instaurare un controllo capillare. Il Chat Control è l’antitesi di questa visione. È un progetto che nasce da una profonda sfiducia nel cittadino, un approccio paternalistico che sacrifica la libertà di tutti sull’altare di una sicurezza illusoria.
La lotta alla pedopornografia è sacrosanta e deve essere combattuta con più risorse, più agenti specializzati, più coordinamento internazionale e indagini mirate. Non con una rete a strascico che cattura milioni di pesci innocenti nella speranza di trovarne uno colpevole.
Stiamo scivolando lungo un pendio pericoloso, dove una nobile causa oggi giustifica la sorveglianza di massa, e domani chissà quale altra “emergenza” verrà usata per limitare il dissenso, controllare l’informazione e soffocare ogni voce non allineata.
Non lasciamo che la paura ci renda complici della fine della nostra privacy. La nostra libertà digitale è in gioco. È il momento di far sentire la nostra voce, forte e chiara.
Da informatico a cercatore di senso