Amazon: 600.000 Posti di Lavoro a Rischio

Amazon: 600.000 Posti di Lavoro a Rischio


L’Esercito Silenzioso di Amazon: 600.000 Vite nell’Ombra dei Robot

Lavoro da anni nel campo dell’innovazione, eppure fatico a restare indifferente di fronte a notizie come questa. Amazon, il colosso che ha ridefinito le nostre vite, sta accelerando verso un futuro automatizzato. La notizia diffusa da Adnkronos, basata su report e documenti interni, non parla di un lontano futuro distopico, ma di un presente che corre veloce. Si parla di sistemi come “Sequoia”, capace di velocizzare l’identificazione e lo stoccaggio dell’inventario del 75%, e del robot bipede “Digit”, progettato per affiancare e, infine, sostituire gli esseri umani nei compiti più ripetitivi.


Il cuore del problema non è la tecnologia in sé. L’efficienza è il mantra della nostra epoca. Ma la mia preoccupazione, profonda ed empatica, è per il “costo umano” che questa efficienza porta con sé.

L’Eufemismo che Nasconde la Tempesta

La cosa che mi colpisce di più, quasi quanto il numero stesso, è il linguaggio utilizzato.

Secondo i report, sembra ci sia una strategia comunicativa precisa per evitare parole come “automazione” o “intelligenza artificiale”. Si preferiscono termini più morbidi, come “tecnologia avanzata” o il neologismo “cobot” (robot collaborativi).

È un tentativo di indorare la pillola, di farci credere in una simbiosi perfetta tra uomo e macchina. Ma la realtà che emerge è un’altra: l’obiettivo è automatizzare fino al 75% delle operazioni. Quando parliamo di 600.000 posti di lavoro a rischio nei soli Stati Uniti, non stiamo parlando di “collaborazione”. Stiamo parlando di sostituzione.

Stiamo assistendo a una sostituzione su scala industriale, dove le mani e le gambe di un lavoratore vengono rimpiazzate da attuatori e sensori. E io mi chiedo: dove andranno quelle 600.000 persone? 😥

La Sottile Promessa dei “Nuovi Lavori”

Naturalmente, la replica ufficiale di Amazon, come quella di molte aziende che intraprendono questa strada, si concentra sulla sicurezza e sulla creazione di “nuovi ruoli”. Si parla di posti di lavoro più specializzati: manutentori di robot, ingegneri meccatronici, supervisori di sistemi automatizzati.

E qui risiede la mia più grande preoccupazione. È davvero realistico pensare che un magazziniere, che svolge un lavoro fisico e spesso usurante, possa trasformarsi da un giorno all’altro in un tecnico specializzato in robotica?

Questa transizione non è né semplice né scontata. I posti di lavoro creati dalla tecnologia sono quasi sempre numericamente inferiori a quelli distrutti, e richiedono competenze (le famose skill) completamente diverse. Si crea un divario, un “mismatch” di competenze che rischia di lasciare indietro i più fragili, coloro che non hanno accesso a una formazione continua e costosa.

Stiamo forse creando una società divisa in due: una élite iper-specializzata che progetta e controlla le macchine, e una massa crescente di persone rese “superflue” dall’efficienza dell’algoritmo?

Oltre Amazon: Lo Specchio del Nostro Futuro

Questa notizia non riguarda solo Amazon. Riguarda noi.

Amazon è semplicemente il pioniere, l’apripista di un modello che, se dimostrerà di essere profittevole (e lo sarà), verrà replicato da ogni singola azienda di logistica, produzione e servizi.

Quello che sta accadendo nei magazzini di Amazon è lo specchio del dilemma del nostro secolo. Come umanisti digitali, come ingegneri, come cittadini, abbiamo il dovere di porci la domanda fondamentale: a chi serve questa tecnologia?

Se l’obiettivo è solo ed esclusivamente il profitto, l’ottimizzazione dei costi e l’aumento dei margini, allora stiamo fallendo. Stiamo costruendo un futuro incredibilmente efficiente, ma privo di empatia. Un futuro in cui il valore di un essere umano è calcolato solo in base alla sua produttività, e dove la sua “obsolescenza” è messa a bilancio.

Non possiamo fermare il progresso tecnologico, e non sarebbe nemmeno giusto. Ma abbiamo il dovere morale di governarlo. Dobbiamo pretendere che una parte di quell’immensa ricchezza generata dall’automazione venga reinvestita non solo in “nuovi ruoli” per pochi, ma in reti di sicurezza sociale, in reskilling universale e accessibile, forse persino in nuove forme di sostegno al reddito.

La notizia di quei 600.000 posti di lavoro non è un problema tecnico. È un problema etico. Ed è un problema che ci riguarda tutti, perché quel magazziniere sostituito da ‘Digit’ potremmo essere noi domani.

Domande che ci Tengono Svegli la Notte

La notizia di 600.000 posti di lavoro a rischio in Amazon solleva più dubbi che certezze. Ho provato a raccogliere qui le preoccupazioni più comuni, cercando di dare una risposta onesta.

È vero che 600.000 persone verranno licenziate domani?

Non si tratta di 600.000 licenziamenti immediati. Il report parla di “posti di lavoro a rischio” in un arco temporale che si estende probabilmente sul prossimo decennio. La mia preoccupazione è che non si tratti di un rimpiazzo 1 a 1, ma di una progressiva “erosione” della forza lavoro umana.

L’azienda potrebbe semplicemente smettere di assumere per coprire il turnover, lasciando che siano i robot a colmare i vuoti. L’effetto netto sull’occupazione, però, resta drammatico: 600.000 opportunità di lavoro che svaniscono.

Ma Amazon non dice che questi robot aiuteranno i lavoratori?

Sì, e questa è la narrativa che mi preoccupa di più. Si usano termini come “cobot” (robot collaborativi) per suggerire un affiancamento. E certo, alcuni robot, come ‘Digit’, sono progettati per “collaborare”.

Il punto, però, è l’obiettivo finale. Il sistema ‘Sequoia’ mira a un’efficienza del +75% nello stoccaggio. Questa efficienza non si ottiene “aiutando” gli umani, ma *facendo il loro lavoro* più velocemente. Temo che la “collaborazione” sia solo una fase di transizione verso la completa automazione di quella mansione.

L’automazione non ha sempre creato nuovi posti di lavoro?

Questo è il grande dogma del progresso tecnologico, ed è stato vero per le rivoluzioni industriali passate. La mia paura, come umanista digitale, è che l’Intelligenza Artificiale sia diversa.

I nuovi lavori creati (ingegneri robotici, manutentori specializzati, programmatori AI) sono altamente qualificati e numericamente molto inferiori ai lavori manuali e ripetitivi che vengono distrutti. Non è realistico pensare di poter “riqualificare” 600.000 magazzinieri in ingegneri meccatronici. Stiamo creando un divario di competenze che rischia di essere socialmente insostenibile.

Cosa possiamo fare noi di fronte a questa notizia?

Non possiamo essere solo consumatori passivi. Come cittadini, dobbiamo esigere trasparenza. Dobbiamo chiedere che aziende come Amazon si assumano la responsabilità sociale di questa transizione.

Significa pretendere che una parte degli enormi profitti derivanti da questa automazione venga reinvestita in programmi di reskilling seri e accessibili, in reti di sicurezza sociale (come il reddito di transizione) e in una governance etica dell’IA. Non possiamo lasciare che sia solo il bilancio aziendale a decidere il futuro di centinaia di migliaia di persone.

Dovremmo quindi fermare il progresso e avere paura dei robot?

Assolutamente no. La mia missione è proprio quella di bilanciare la paura con la consapevolezza. Fermare la tecnologia è impossibile e sbagliato. I robot possono sollevarci da lavori usuranti, pericolosi e alienanti.

Il punto non è se usare la tecnologia, ma come e per chi. La preoccupazione non è per il robot ‘Digit’ in sé, ma per un sistema economico che usa ‘Digit’ per massimizzare i profitti senza curarsi delle conseguenze umane. Dobbiamo guidare questo processo, non subirlo.

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