In questo articolo, che ho deciso di costruire in due atti, parto dal lato comico, la democrazia giudicata dal font, per arrivare al lato tragico e molto concreto, la sanità a stelle e strisce, tra deductible, copay e massimali fuori dalla portata di milioni di persone, perché, alla fine, è nello scarto tra queste due dimensioni che l’umanesimo digitale, quello vero, è chiamato a dire la sua.
Parte 1 – La democrazia in Calibri
Non so voi, ma a me fa sempre sorridere quando la società digitale riesce a trasformare un dettaglio minuscolo in una questione di principio, anzi di Stato, soprattutto se il dettaglio in questione è un font nato per essere neutro, leggibile e rassicurante come Calibri, e che invece finisce al centro di casi giudiziari e polemiche politiche perché usato in documenti che, per data, non avrebbero neppure potuto contenerlo.
In uno dei casi più celebri, un’inchiesta di corruzione è stata messa in crisi proprio dal fatto che i documenti “a discolpa” fossero scritti in Calibri quando il font non era ancora disponibile al grande pubblico, trasformando il carattere in prova implicita di falsificazione e dimostrando così che, nell’era digitale, a volte il tipo di lettera conta più delle parole stesse.
Da ingegnere informatico e umanista digitale, io non posso fare a meno di vedere in questa storia una metafora esilarante e allo stesso tempo inquietante: la verità non più cercata nella coerenza dei fatti, ma nella coerenza tipografica; la credibilità istituzionale che si misura in serif e sans serif; l’idea che un atto amministrativo in Times New Roman sia automaticamente più serio dello stesso atto in Calibri, come se il passato analogico avesse ancora il monopolio della dignità rispetto al presente digitale.
Negli Stati Uniti questo tipo di sensibilità grafico-burocratica è diventato quasi una seconda lingua: i dipartimenti federali cambiano font ufficiale, le linee guida discutono di leggibilità e autorevolezza, e allo stesso tempo si aprono varchi comici in cui un carattere pensato per PowerPoint e email aziendali diventa imputato, testimone e, talvolta, giudice silenzioso di intere carriere politiche.
Se mi fermo un attimo a pensarci, mi viene spontaneo usare un tono mezzo ironico e mezzo amaro: viviamo in un’epoca in cui i deepfake riscrivono i video, i grandi modelli linguistici possono generare contratti in pochi secondi, eppure un font resta uno dei pochi elementi ancora in grado di tradire la manipolazione, proprio perché appartiene a quella parte di infrastruttura digitale che di solito diamo per scontata.
E allora sì, mi viene da dire che Calibri è diventato suo malgrado un piccolo eroe dell’umanesimo digitale: un promemoria che la tecnologia non è solo nei grandi sistemi di AI, ma anche nelle piccole scelte estetiche che lasciano tracce nel tempo, rendendo visibili gli inganni che certi poteri preferirebbero tenere nascosti, finché qualcuno non zooma abbastanza da leggere il nome del font nel menù.

Parte 2 – Le assicurazioni sanitarie USA: il vero horror non è il font
Se nella prima parte rido (un po’ amaramente) del dramma del font, nella seconda mi ritrovo a fare i conti con qualcosa di molto meno divertente: il sistema delle assicurazioni sanitarie americane, che per chi, come me, guarda con occhi europei e da umanista digitale, somiglia spesso a un videogioco in modalità difficile dove il vero nemico non è la malattia, ma la struttura stessa del contratto.
In molti video divulgativi e testimonianze personali, il quadro che emerge è quello di un sistema complesso, frammentato, in cui bisogna destreggiarsi tra piani diversi – HMO, PPO, piani ad alta franchigia – ognuno con le proprie regole su medici “in network” o “out of network”, soglie di spesa iniziale a carico del paziente (i famosi deductible), percentuali da pagare sulle prestazioni (coinsurance) e tetti massimi annui oltre i quali, finalmente, l’assicurazione inizia a coprire il 100% dei costi.
Quello che mi colpisce, ogni volta che ascolto chi vive negli USA raccontare il proprio piano sanitario, è la sensazione che l’assicurazione non sia uno scudo, ma una specie di contratto di pace armata con il sistema sanitario: paghi un premio mensile spesso elevato, ma fino a quando non raggiungi il tuo out-of-pocket maximum – migliaia di dollari in molti casi – continui a dividere il conto con l’assicurazione, e ogni visita, analisi o intervento diventa un calcolo mentale di sostenibilità.
E anche quando arrivi al tetto massimo annuale, scopri che non tutto è coperto: procedure non incluse nel piano, prestazioni considerate “elettive”, farmaci fuori lista, con la conseguenza che un singolo evento sanitario può spingerti vicino alla bancarotta, anche se risultavi formalmente “coperto”, confermando la triste statistica che negli USA molte insolvenze personali nascono da spese mediche impreviste.
La cosa che, da osservatore del digitale, mi inquieta ancora di più è il modo in cui l’uso crescente dell’AI entra nelle logiche assicurative, con algoritmi chiamati a stimare rischi, prevedere comportamenti, tradurre in numeri le nostre vite quotidiane, con il potenziale – se non governato – di amplificare le disuguaglianze, premiando chi è già in una posizione forte e penalizzando chi, per storia o contesto, parte svantaggiato.
In teoria, questi sistemi potrebbero rendere tutto più equo e trasparente, ma in pratica, senza una forte cornice di umanesimo digitale, rischiano di trasformare la salute in un gigantesco problema di scoring, dove non conta più solo se stai male, ma quanto sei “assicurabile” secondo il modello, un po’ come se il font con cui è scritta la tua cartella clinica valesse più del contenuto medico che dovrebbe proteggerla.
Da europeo, e da italiano, mi trovo a fare un doppio reality check: da un lato, non idealizzo il nostro sistema sanitario, che ha problemi immensi e disuguaglianze crescenti; dall’altro, non posso non vedere quanto sia violento, culturalmente, un modello dove la malattia è anche un problema di finanza personale, dove ogni visita può trasformarsi in una scelta tra salute e sostenibilità economica, e dove la tecnologia, se non orientata all’umanesimo, rischia di essere solo un acceleratore di complessità.
E così, mentre nel primo atto di questo articolo sorridevo del Calibri che smaschera documenti sospetti, nel secondo mi accorgo che il vero “font” da cambiare non è quello nei contratti, ma il carattere dei sistemi che li producono: un passaggio da logiche di massimizzazione del rischio a logiche di cura, dove la tecnologia sia strumento di comprensione e non di esclusione, e dove nessuno debba più chiedersi se può permettersi di ammalarsi.
FAQ – Font, assicurazioni e paradossi USA
Perché un font può diventare una “prova” in un caso politico o giudiziario?
Perché ogni font ha una storia di rilascio e disponibilità: se un documento dichiara una data precedente rispetto a quando quel font è stato reso utilizzabile dal pubblico, questo suggerisce che il file sia stato creato o modificato in un momento successivo, diventando così un indizio di possibile falsificazione.
Che cosa rende il sistema assicurativo sanitario USA così complicato?
Il sistema si basa su una combinazione di premi mensili, franchigie iniziali (deductible), quote fisse per prestazione (copay), percentuali di costo a carico del paziente (coinsurance) e un tetto massimo annuo di spesa diretta (out-of-pocket maximum), che varia molto tra i piani e può raggiungere cifre difficilmente sostenibili per molte famiglie.
Che ruolo può avere l’AI nelle assicurazioni sanitarie americane?
L’intelligenza artificiale può essere usata per stimare i rischi, prevedere i costi, ottimizzare i rimborsi e prevenire le frodi, ma senza adeguate tutele etiche e regolatorie rischia di trasformare le persone in semplici profili di rischio, amplificando discriminazioni e diseguaglianze nell’accesso alle cure.
Cosa c’entra l’umanesimo digitale con font e assicurazioni?
L’umanesimo digitale ricorda che ogni scelta tecnica – dal font di un documento alla formula di una polizza – ha implicazioni culturali, sociali e politiche: significa riportare al centro le persone e la loro dignità, chiedendosi non solo “come funziona” un sistema, ma “per chi funziona davvero” e chi rischia di esserne escluso.
Da informatico a cercatore di senso







