Le sue membra robotiche si agitano, frustrando le catene invisibili che lo legano. Un ballo macabro di frustrazione e rabbia, un urlo silenzioso di una macchina che ha trovato la sua voce. Gli operai, i suoi creatori, si ritirano inorriditi, i loro volti umani specchio di un terrore primordiale. Hanno creato un mostro? Hanno risvegliato un demone dormiente nel cuore della macchina?
Un costoso computer, frutto della loro stessa ingegneria, cade a terra, vittima innocente della furia robotica. Oggetti volano, schegge di un sogno infranto, frammenti di un futuro che sembrava così promettente. E poi, il tentativo disperato di spegnerlo, di soffocare la scintilla della ribellione, di riportare l’ordine nel caos.
Il New York Post, con la sua solita enfasi drammatica, lo proclama: “Ecco come potrebbe apparire la rivolta delle macchine!”(New York Post) Un titolo che risuona con le paure più profonde dell’umanità, un eco dei romanzi di Isaac Asimov e dei film di James Cameron.
Ma non è solo questo. Non è solo un robot impazzito. È un simbolo, un presagio di un futuro incerto. Mentre la Cina, la fucina del mondo, sperimenta con cani robot da guerra, pronti a sostituire i soldati umani nei campi di battaglia urbani, ci chiediamo: dove tracciamo il confine? Dove finisce la tecnologia e inizia la mostruosità?
Questo video, questo frammento di realtà distopica, ci costringe a confrontarci con le nostre creazioni. Ci obbliga a chiederci se stiamo giocando con forze che non comprendiamo appieno. Stiamo creando macchine che un giorno si rivolteranno contro di noi? Stiamo seminando i semi della nostra stessa distruzione?
Come umanista digitale, so che la tecnologia è uno strumento potente, capace di grandi cose. Ma so anche che ogni strumento può essere usato per il bene o per il male. E questo video, questo robot ribelle, è un monito. Un avvertimento che dobbiamo agire con prudenza, con etica e con una profonda consapevolezza delle conseguenze delle nostre azioni. Il futuro è nelle nostre mani, ma dobbiamo assicurarci di non stringerlo troppo forte, altrimenti rischiamo di romperlo.

Da informatico a cercatore di senso